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Don’t look up: serviva il caos di McKay per fare ordine sul cambiamento climatico

Geniale, assurdo, demenziale e brutalmente veritiero. Si potrebbe sintetizzare in questa serie di aggettivi “Don’t look up”, il nuovo film di Adam McKay, autore della recente e insolita chiave di lettura del climate change e del ruolo che in esso gioca la società moderna.



Film “Don’t look up” di Adam McKay


Attenzione, da qui in avanti SPOILER: in sintesi, una coppia di astronomi (Leonardo di Caprio e Jennifer Lawrence) si accorge dell'esistenza di una cometa in rotta di collisione con la Terra. I due scienziati cercano di avvertire tempestivamente la popolazione dell’intero pianeta nel tentativo di trovare una soluzione, ma incontrano fin da subito una folle opposizione proveniente da una società grottesca, tristemente familiare, fatta di chiacchiere, immobilismo politico, avidità e complottismo.


Tra una risata amara e l’altra, il film elencagli stratagemmi impiegati dai protagonisti per comunicare l'imminente catastrofe e i bizzarri ostacoli posizionati sulla loro strada, specialmente dalla politica e dai media.

Secondo alcuni, il film descrive perfettamente la crisi pandemica degli ultimi due anni, secondo la mia interpretazione (e non solo) lo scagliarsi del corpo celeste rappresenterebbe i drammatici cambiamenti climatici in atto e l'indifferenza agli avvertimenti degli scienziati di cui tutti, chi più chi meno, stiamo dando prova in questi anni. Come se la nostra società, così spesso sollecitata dalle minacce, ormai non ci facesse più caso, coltivando un'illusoria speranza che in qualche modo “tutto si aggiusterà” oche il disastro riguarderà chi verrà dopo di noi.


L’ironia “demenziale” di cui è intriso il film è il veicolo, il volo pindarico che ci illude di poter uscire dai binari ma che in realtà sa esattamente come terrorizzarci. E più scendiamo negli abissi, più prendiamo consapevolezza della meschinità che il menefreghismo umano può raggiungere, più ci spaventiamo, cercando di convincerci che nella realtà non potrebbe andare davvero così. Ma è proprio in questo istante di interruzione cognitiva, di blackout, che il film si insinua e infastidisce le nostre coscienze.


Il palcoscenico scelto dal regista per la sua rappresentazione sono gli Stati Uniti, capro espiatorio di una politica corrotta (interessata più a nomine governative improbabili e scandaletti sessuali che al rischio della fine del mondo), dei canali televisivi (dove bisogna solo sorridere e dare spazio al gossip) e dei magnati milionari del mondo hi-tech. La grottesca parodia che McKay inscena si infarcisce allora di programmi tv, tweet, reazioni sui social, opinioni in bocca di falsi esperti, sondaggi di gradimento, teorie e calcoli scientifici non verificati fino a colmarsi con una politica avvilente, attenta solo a salvarsi la faccia e gestire la propria comunicazione in maniera impeccabile agli occhi del pubblico.


Nella battaglia tra i Don’t look up e i Look up, dietro alla nube polverosa, ci siamo poi noi, gli spettatori, fermi e increduli, perché verrebbe da porci, per un istante, una domanda assurda: ma se una notizia sconvolgente e terribile non macina abbastanza reazioni sui social o non viene compresa, quella notizia esiste realmente? E ancora: io, fino a che punto sono disposto a battermi perché quella notizia esista e venga accettata?


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