Nell’ambito delle politiche aziendali prendono sempre maggiormente spazio – a volte pericolosamente solamente nella dimensione propagandistica e non effettiva – iniziative che mirano, almeno a parole, ad avere un “impatto sociale”.
Accanto all’autodichiarazione di tale scopo e degli effetti positivi delle proprie iniziative, permane però una problematica esistenziale originaria: come valutare l’impatto sociale di un’attività?
La centralità della tematica ambientale e della penuria delle risorse disponibili, così come la crescente attenzione della popolazione verso imprese che non si limitino a fornire il servizio primario o il bene-risultato (sia esso una crema spalmabile o un servizio di pulizia), indagando come agisce un’azienda e che esternalità produce, ha reso consapevoli le aziende stesse della necessità di investire sull’impatto sociale. La riprova di tale diffusa sensibilità è anche la crescita annuale degli “investimenti” filantropici, che interessano centinaia di migliaia di organizzazioni per un totale di elargizioni di quasi 500 miliardi suddivisi in oltre 50 miliardi di “operazioni” [1]. Per tali aspetti si è diffusa sempre maggiormente l’esigenza di trovare dei canoni con cui verificare effettivamente il concreto impatto sociale di un’attività, distinguendo le eccellenze dalle iniziative meramente propagandistiche.
Una prima traccia metodologia si può identificare nella c.d. Teoria del cambiamento (Theory of change)[2]. Tale teoria prevede un approccio causale-epistemologico che, avendo ben presente la finalità principe dell’attività, identifica singoli obiettivi “intermedi” e le condizioni necessarie per realizzarli. Tramite questo connubio tra output e outcomes si riesce a tracciare una mappatura globale delle attività procedendo a una valutazione step by step, verificando gradualmente i progressi della stessa fino al goal fissato.
Questa visione “globale” è peraltro coerente con le aspettative degli stessi investitori sociali: secondo una ricerca svolta dal Cergas [3] su un campione dei principali investitori sociali ha mostrato come l’aspetto più rilevante tenuto in considerazione dagli stessi risiede nella capacità dell’attività di comportare un cambiamento sistematico.
È ovvio che questo “system change” può esser raggiunto con diverse modalità, come differenti possono essere le intensità del cambiamento e le tempistiche di realizzazione dello stesso; difatti, nell’analisi occorre sempre tener presente che le conseguenze sociali raramente sono immediate e palesemente intense, necessitando invece di apposite attività di controllo e monitoraggio.
Servono pertanto apposite figure professionali che siano in grado non solo di valutare ex post le effettive ricadute di determinate attività ma siano, soprattutto, capaci di predisporre modelli coerenti con lo scopo prefissato, sapendo verificare nel corso dell’attività se e in che modo l’iniziativa risponde positivamente agli “stimoli” prodotti e, se necessario, modificare le linee di progetto verso il successivo obiettivo intermedio canalizzato a realizzare l’impatto voluto.
In tal senso si muovono le sempre più diffuse attività di formazione volte ad indagare gli impatti che le differenti attività producono; si va dalla creazione di nuove figure professionali, dall’Innovation manager al Progettista sociale recentemente regolamentata con la norma tecnica UNI 11746, alle indagini d’impact investing di matrice più prettamente fiscale che si muovono lungo gli assi del rendimento-rischio-impatto. Tra tutti, in quest’ultimo gruppo spicca il progetto Investing for Good Lab [4], il laboratorio organizzato dalla Luiss con ItaliaCamp [5] e vari operatori economici e istituzionali volto a diffondere e condividere tra gli studenti le metodologie di gestione e valutazione di impatto attraverso un percorso competitivo di selezione tra le differenti start-up create dagli stessi studenti.
Mentre quindi l’impatto sociale sembra esser positivamente destinato a essere attratto verso il core business aziendale, è necessaria un’effettiva analisi valutativa dell’impatto sociale – magari anche rendendo maggiormente uniformi i criteri d’indagine, tenendo però presenti le inevitabili differenti tipologie d’impatto e ambiti d’attuazione – combinata con il coinvolgimento di specifici professionisti capaci, anche grazie a quelle che un tempo erano definite soft skills, di comprendere per tempo se un impatto sociale meriti di esser annoverato come tale.
[1] Spaggiari, O. (17/01/2018). Filantropia: con 60 miliardi di euro all’anno è la chiave del sociale europeo. Reperibile da: http://www.vita.it/
[2] Centro Studi Lang sulla Filantropia Strategica (2017). Manuale operativo per la Theory of Change. Reperibile da: https://www.fondazionelangitalia.it
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